Riscaldamento globale ed inquinamento: l’incidenza degli allevamenti intensivi

Il riscaldamento globale, ovvero il mutamento del clima terreste e l’aumento delle temperature del globo, è un fenomeno ampiamente confermato da numerosi studi scientifici e che sta già cominciando a dare prova dei suoi effetti.

Siamo soliti focalizzarci principalmente sulle problematiche relative alle polveri sottili (PM 10, PM 2.5) e ai gas serra (CO2, N2O, CH4) prodotti dall’utilizzo di autovetture e dalle attività industriali. Si parla invece in maniera estremamente ridotta dell’inquinamento derivante dagli allevamenti intensivi e dell’impatto che questi hanno sul riscaldamento climatico.

I numeri

Secondo uno studio di Ispra, prendendo in considerazione il solo particolato primario, ovvero quello emesso direttamente dalla fonte inquinante, il riscaldamento domestico (inclusa la legna) impatterebbe per il 59%, seguito dalle automobili con il 18%, l’industria con il 15% e infine gli allevamenti con un’incidenza trascurabile (1.5%).

Il problema però è che le polveri sottili si formano anche in un secondo momento, attraverso processi chimico-fisici in atmosfera, dando origine a quello che viene definito “particolato secondario”. Il PM10 e PM2.5 sono composti per una percentuale cospicua da particelle secondarie che si formano a partire da ossidi di azoto e zolfo, ammoniaca e composti organici volatili (COV).

Considerando invece particolato primario e secondario insieme, ecco che l’incidenza delle fonti inquinanti cambia notevolmente rispetto a prima: il riscaldamento continua a trovarsi al primo posto con un impatto del 38%, ma al secondo posto troviamo gli allevamenti con il 15,1%, poi l’industria con l’11% e le auto con il 9%.

L’impatto degli allevamenti

Gli allevamenti intensivi risultano quindi essere la seconda fonte di particolato secondario, oltre che la prima sorgente di emissione di ammoniaca (NH4) in atmosfera (76.7% a livello nazionale nell’anno 2015),

Un ulteriore problema è rappresentato dal fatto che non esistono strategie di emergenza adottabili per gli allevamenti, contrariamente a quanto invece si può fare per i veicoli, con stop al traffico o limitazioni per i mezzi maggiormente inquinanti, o per il riscaldamento, con l’abbassamento delle temperature interne. In questo caso, per intervenire sugli allevamenti, bisogna ricorrere a strategie decisamente più strutturali, come nuove tecnologie oppure nella riduzione del numero di capi.

Dal 2000 al 2016, i trend delle emissioni da parte delle principali fonti inquinanti dimostrano come ci sia stata una diminuzione dell’inquinamento connesso ai trasporti, all’industria, all’agricoltura e alla produzione energetica, mentre l’incidenza di allevamenti e riscaldamento ha registrato una costante crescita, rispettivamente dal 10.2% al 15% e dal 15% al 38%.

Non solo particolato secondario

Un altro aspetto ambientale significativo da non trascurare sono le emissioni di gas serra derivanti dagli allevamenti. Tra questi, il più rilevante è il metano (CH4), che è generato principalmente dalla fermentazione della cellulosa negli stomaci dei ruminanti da parte di microrganismi specifici e che viene rilasciato in atmosfera attraverso le deiezioni degli animali.

Il metano è un importante gas serra che, oltre all’allevamento, viene prodotto anche durante attività agricole, nelle discariche e durante la lavorazione delle deiezioni, alla quale è connessa anche la produzione di protossido di azoto (N2O), terzo gas serra per importanza e caratterizzato da una stabilità prolungata in atmosfera (circa 150 anni).

Ciò che rende il tutto più allarmante è che il metano ed il protossido di azoto sono molecole che presentano una forte capacità di trattenere la radiazione infrarossa emessa dalla superficie terrestre e quindi di generare effetto sera. Questa capacità è addirittura maggiore rispetto a quella della CO2 di circa 25-30 volte per il metano e di 200 volte per il protossido di azoto.

Se poi riflettiamo anche sugli aspetti relativi alla produzione di cibo e di mangimi, dobbiamo considerare un’ulteriore criticità, ovvero la deforestazione, specialmente in Amazzonia. La coltivazione di soia e palma da olio, il pascolo e l’allevamento rappresentano le principali cause della deforestazione che da sole pesano per il 40% del totale.

Prospettive

E’ chiara quindi la complessità che si cela dietro a questa problematica e, come spesso accade in campo ambientale, un problema è sempre connesso a tanti aspetti differenti. Inoltre, la FAO stima che entro il 2050 il consumo di carne aumenterà del 73%, ed è evidente quanto il sistema sia già ora insostenibile. Le sfide che ci si pongono davanti sono molteplici: ridurre gli sprechi, favorire investimenti per ricercare nuove tecnologie e metodologie, favorendo anche una diminuzione degli inquinanti e dei gas serra prodotti, ed un necessario cambiamento di stile di vita e delle nostre abitudini alimentari, cercando per quanto possibile di ridurre il consumo di proteine animali.

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